26 Mag ECONOMIA CIVILE
Di Stefano Zamagni, Economista, presidente della Pontificia accademia delle Scienze Sociali.
D. Professor Zamagni, lei ha detto recentemente che questo non è un cigno nero, che la situazione in cui ci troviamo non è un fatto imprevisto. Qual è la situazione in cui ci troviamo? E che cos’è l’economia civile?
R. Sono certo che Venture Thinking avrà successo, perché le nostre società, Italia compresa, vivono una grande scarsità di pensiero pensante. Se di pensiero calcolante ne abbiamo abbastanza, quel che ci manca è il pensiero pensante. La differenza è ovvia: il pensiero pensante è quello che indica la direzione di marcia, quello calcolante, che pure è rilevante, risolve i problemi del momento. Per il pensiero calcolante basta una mappa, ma per quello pensante c’è bisogno di una bussola. Ecco, in questo momento i nostri imprenditori, quelli che già operano e quelli che opereranno nel futuro, hanno soprattutto bisogno di bussole; non che le mappe non siano utili, ma sono state già acquisite. Mi sembra di capire che Venture Thinking voglia ambire a coprire questo buco.
Le parole “impresa” e “imprenditore” sono state coniate per la prima volta da un economista irlandese di nome Richard Cantillon in un libro pubblicato nel 1730 (Essai sur la nature du commerce en général), prima di allora non esistevano, si parlava solamente di artigiano, di agricoltore o di mercante. Questa distinzione è bene che si conosca, perché spesso si fa confusione. Cantillon descrive l’imprenditore come un animale, nel senso aristotelico del termine, che possiede al massimo grado tre caratteristiche. La prima è la propensione al rischio: non si diventa imprenditori se si vuol rimanere al sicuro, bisogna essere disposti a rischiare. La seconda è l’innovatività: non si può essere imprenditori se ci si limita a rivedere e aggiustare le cose ottenute in passato. La terza e più importante è l’ars combinatoria, cioè l’arte della combinazione. In questo senso l’imprenditore è come un direttore d’orchestra capace di mettere uno vicino all’altro i diversi strumenti, sapendo che, se cambia l’ordine, la melodia non sarà più la stessa. Per un imprenditore oggi applicare l’arte della combinazione vuol dire riconoscere che in un’impresa ci sono talenti, prospettive e capacità diverse e saperli mettere nel giusto ordine. Se ho bene interpretato, Venture Thinking nasce esattamente con questa aspirazione.
Le strategie d’uscita da questa crisi pandemica sono due. Una è nota come “modello dell’alluvione”, l’altra è quella della “resilienza trasformativa”. Il modello dell’alluvione deve il suo nome ovviamente a una metafora: quando un fiume esonda, si aspetta che l’acqua rientri nell’alveo, si aggiustano gli argini, si mettono delle pezze qua e là affinché il fiume continui a scorrere come prima, «business as usual» dicono gli americani. Se questo dovesse essere il nostro caso sarebbe un giorno triste per il Paese perché dobbiamo utilizzare questa pandemia come una grande opportunità per imboccare la via della resilienza trasformativa. Ed è per questo che oggi c’è necessità di imprenditori, molto più che di manager. Non che quest’ultimi non siano importanti, ma abbiamo bisogno di persone, che, come affermava Cantillon, mostrino al massimo grado quelle tre qualità di cui ho parlato.
Resilienza significa aumentare la capacità di fare fronte alle vulnerabilità e di queste ce ne saranno ancora altre. Infatti è assolutamente sbagliato pensare che questa pandemia sia un cigno nero – chi lo dice è un irresponsabile, perché confonde le idee –, era stata prevista, prevista e ancora prevista. L’ho detto tre volte. La prima volta nel libro di Quammen (Spillover) nel 2012, si pensi poi a Fauci e, nel settembre 2019, al rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che aveva per titolo A world at risk, cioè il mondo in posizione di rischio. Al tempo stesso, però, bisogna prepararsi a far fronte alle prossime. Un rapporto recente che mi è capitato tra le mani dice che fra circa dieci o dodici anni ci sarà un’altra pandemia. È per questo allora che abbiamo bisogno della resilienza trasformativa e di imprenditori.
Veniamo alla seconda domanda. L’economia civile, come sappiamo, è un paradigma, e cioè, secondo l’etimologia greca, un modo di vedere la realtà, in questo caso la realtà economica. È un paradigma che nasce in Italia, precisamente a Napoli, nel 1753, con Antonio Genovesi e poi si trasferisce a Milano con Pietro Verri, Gian Domenico Romagnosi e tanti altri. L’altro paradigma, alternativo ma non antagonista, è quello dell’economia politica, fondato in Scozia trent’anni dopo, avendo come riferimento Adam Smith. Sebbene differenti, entrambi i modelli difendono l’economia di mercato, la quale oggi corre rischi molto grossi. Ad oggi non ci sono alternative; fino a 40 anni fa il rischio si chiamava economia pianificata di tipo sovietico, ma, da quando anche la Cina ha adottato un’economia di mercato, pur mantenendo una struttura politica caratterizzata dall’unicità di partito, si è estinto.
Le differenze tra i due modelli sono in primo luogo nell’assunto antropologico. Il paradigma dell’economia politica è basato su quello, universalmente noto, dell’homo oeconomicus, cioè il soggetto razionale e auto-interessato, che pensa solo al proprio interesse. Il paradigma dell’economia civile, invece, parte dall’assunto dell’homo reciprocans, per cui l’uomo è un soggetto naturalmente reciprocante. La virtù della reciprocità è tale per cui si dà aiuto aspettando che l’altro faccia altrettanto, senza però un negoziato o un prezzo di mercato, perché il rapporto si basa sul riconoscimento dell’appartenenza alla medesima natura e sull’interesse congiunto a evolvere la situazione in una certa direzione: in altre parole, io ho bisogno di te e tu hai bisogno di me.
Il secondo motivo di differenziazione riguarda il fine. Il fine dell’economia politica è il bene totale, mentre il fine dell’economia civile è il bene comune. Non si può assolutamente affermare che i due siano la stessa cosa, sarebbe un’aberrazione, una violazione patente della verità. Non so se è il caso di dilungarsi, ma immagino sia a tutti noto qual è la differenza tra massimizzare il bene totale e massimizzare il bene comune.
Infine il terzo elemento di differenziazione è ancora più sottile. Mentre il paradigma dell’economia politica accetta il principio del NOMA, l’economia civile no. NOMA è un acronimo inglese che sta per non-overlapping magisteria, cioè magisteri che non si sovrappongono, introdotto per la prima volta nel 1829 da Richard Whately, cattedratico di economia a Oxford e vescovo della Chiesa anglicana. Questo principio implica che se l’economia vuole diventare una scienza vera deve tagliare i nessi che la legano all’etica e alla politica. È la definizione di Robbins, che tutti gli studenti hanno imparato a memoria, secondo cui l’economia è la scienza che, data la scarsità delle risorse, trova i mezzi più adeguati, o meglio più efficienti, per raggiungere fini alternativi. E questo è esattamente il modo di ridurre l’economia a mero strumento. Gli economisti continuano a insegnarlo, ma gli imprenditori si rifiutano, offesi da questa visione. Dovrebbero mettere a frutto i loro talenti solo per trovare i mezzi? Possibile che non abbiano nulla da dire sui fini che occorre perseguire? Che non possano esprimere un giudizio etico nei confronti di certe posizioni? Secondo l’economista politico no, perché dei fini si occupa la politica e dell’etica l’eticista.
Se oggi noi vogliamo veramente rilanciare, come io mi auguro che voi farete, il ruolo dell’impresa con la i maiuscola bisogna dire queste cose. Mentre affermare che l’imprenditore opera solo per massimizzare il profitto è un’offesa, che deriva dal paradigma dell’economia politica.
Chiudo infine: chi ha fatto l’Umanesimo nel 1400? Gli imprenditori, che allora non si chiamavano così, come ho detto prima. Sono stati loro, questi mercanti, i primi umanisti. Oggi siamo in una situazione analoga, in un nuovo Umanesimo e dobbiamo chiamare a raccolta gli imprenditori.
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