
10 Set La metamorfosi di una nuova identità personale e organizzativa
di Franco Bolelli
Non ho personalmente alcuna esperienza di lavoro in azienda, ma sono certo che le più decisive, evolute, suggestive questioni di cui oggi si parla sarebbero state totalmente impensabili appena pochi anni fa. Effetti del Covid e dell’home working, direte: no, qualcosa di più profondo. Effetti di quella che è forse la più profonda metamorfosi di identità mai vissuta nella storia umana.
Perché in pochi anni il nuovo mondo globale ha spiazzato e depotenziato le storiche unità di misura delle identità tradizionali -da quelle politiche, ideologiche, religiose, nazionali, fino a professioni, ruoli, linguaggi e il senso di sè di milioni di noi: entrando in contatto con una vertiginosa miriade di materiali, informazioni, conoscenze, esperienze, ciascuno di noi ha cominciato a sentire di poter modellare identità espanse, forse dispersive, forse più fragili, ma personalizzate e non più generaliste.
A me questa possibilità di ridefinire e reinventare le nostre identità sembra un’opportunità e una sfida senza precedenti. Ma è fin troppo evidente che per tantissimi questo improvviso salto nell’ignoto rappresenta ansia, panico, disorientamento: costruirsi le proprie unità di misura può essere una grande avventura ma anche un incubo e rinunciare a certezze per quanto illusorie in nome di una promettente incertezza può spaventare tanti. D’altra parte -non dimentichiamolo mai- ogni evoluzione è sempre la conquista di qualcosa attraverso la perdita di qualcosa. È così che mentre l’irrequieta prospettiva della costruzione di nuove forme di identità si compie sottotraccia, a prevalere sono le due strade più elementari: quella dell’ultraindividualismo e quella di chi ha bisogno di definirsi in uno schieramento che si giustifica in opposizione ad altri schieramenti.
Ecco, di tutto questo a me sembra che non pochi manager e non poche aziende stiano prendendo l’essenza più profonda e avanzata (lo racconta perfettamente Roberto Battaglia in un libro prossimo a uscire). Mi ritrovo affascinato davanti all’ipotesi che i dipendenti possano sperimentare forme di imprenditorialità nelle aziende in cui lavorano, che le aziende -senza venir meno alle loro regole- pensino che il potenziale inespresso di certi dipendenti possa essere un valore, che le relazioni umane siano qualcosa di prezioso da cui il lavoro possa trarre sostanzioso vantaggio. No, non mi illudo che questa attitudine sia così diffusa, chiaro che si manifesta a un livello superiore. Ma è tanto più decisiva in un momento in cui una politica assistenzialista e statalista può non soltanto deprimere l’economia ma provocare un effetto psicologico dissuasivo sulla volontà e la responsabilità di tanti. Perché questa capacità di guardare negli occhi quello che esiste soltanto in potenza è la sorgente di ogni evoluzione in ogni situazione della nostra esistenza, è la spinta che può rendere pragmatica ed efficace la più azzardata delle visioni. In questa dimensione non ci si accontenta soltanto di trovare compromessi fra talenti e vite private da una parte e dall’altra lavoro e aziende: è l’identità stessa delle aziende a espandersi, è l’identità personale di chi ci lavora che si espande insieme con quella professionale, sono i paradigmi e le forme e gli spazi del lavoro. Si chiama coevoluzione, e quella fra esseri umani e aziende -fin qui fondata su regole e ruoli e abitudini meccaniche- può davvero portarci dove mai avremmo nemmeno pensato appena ieri.
Proprio quello che abbiamo l’ambizione di fare noi qui a Venture Thinking, sperimentando ed elaborando ecosistemi fino a costruire paradigmi tanto appassionanti quanto vantaggiosi. Fatelo con noi, creiamo crescita.
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