26 Mag IL FUTURO DELLA SALUTE E DEL LAVORO – TAVOLA ROTONDA
Di Marco Bentivogli (Segretario FIM CISL), Nicola Redi (Managing Partner Venture Factory), Massimo Temporelli (Innovatore, Fisico, Antropologo)
D. Marco Bentivogli si batte da sindacalista per portare la tecnologia sui luoghi di lavoro, in particolare nella metalmeccanica. Questo va contro quello che di solito si pensa riguardo alle fabbriche, ma l’innovazione nella fabbrica può andare anche a favore dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici.
R. Marco Bentivogli: La tecnologia di per sé non ha un valore oggettivo, dipende con quali criteri la si progetta e quali finalità le si assegnano. È molto utile nei nuovi sistemi di organizzazione del lavoro per cercare di sollevare gli esseri umani dalle mansioni più gravose, più nocive e più ripetitive, le quali spesso sono foriere di stress da lavoro correlato non solo in ambito operaio, ma anche in quello impiegatizio.
Oggi si è capito finalmente che nella moderna organizzazione del lavoro bisogna cercare di ridurre a zero la fatica, dal momento che costituisce uno spreco; ci si è arrivati, però, con un’ottica economicistica: infatti più le persone faticano, più è bassa la produttività. Ad ogni modo questa considerazione aiuta a concentrare gli individui su un lavoro a maggiore ingaggio cognitivo, cioè con un maggiore contributo umano e intellettuale, che prevede soprattutto capacità progettuale e di risoluzione dei problemi. Un altro elemento fondamentale nella costruzione delle linee di produzione attuali è l’attenzione all’ergonomia, a quanto i processi produttivi rispettino il corpo dell’uomo e della donna. I carichi posturali devono essere sostanzialmente azzerati, bisogna fare in modo che, a differenza della vecchia fabbrica fordista in cui la persona modificava la propria postura in base al prodotto e alla linea di montaggio, i processi produttivi di una smart factory inseguano la postura della persona e funzionino in modo tale da preservare la salute dei lavoratori. Da questo punto di vista si considerino i tantissimi impieghi della tecnologia, le occasioni in cui permette di allontanarsi fisicamente dalla macchina, che può essere governata da remoto, risparmiando, ad esempio, esalazioni nocive e garantendo una speranza di vita molto più lunga.
In ultimo, il diritto al lavoro contiene in sé il diritto alla salute. E in questi giorni è vivo lo scontro proprio su questa tema. Non esiste un diritto al lavoro, e quindi un lavoro, che lasci spazi e possibilità al danneggiamento dell’integrità e della salute del corpo e della persona. Da questo punto di vista i passi che si possono fare sono tantissimi e la fase che si apre, e che in realtà si è già aperta per motivi di produttività, sarà di grande riprogettazione del lavoro, degli spazi e degli orari perché bisognerà conciliare sempre di più il lavoro con la vita e non viceversa.
Questi sono aspetti fondamentali che consentono all’impresa e ai lavoratori di vincere. È ovvio che tutte queste innovazioni sono forti, ma sono possibili a una precondizione: che attorno all’impresa ci sia un ecosistema intelligente, capace di governare, accelerare e promuovere la persona dentro le grandi trasformazioni digitali e del lavoro.
D. Venture Thinking nasce anche dall’idea che il modello con cui si è andati avanti, anche nella produzione industriale, negli ultimi decenni ha perso di vista la persona. Parlare di tecnologia non significa eliminare il fattore umano, la componente intellettuale di un lavoro, ma anzi potenziarla.
A questo proposito vorrei chiedere a Nicola Redi, che, come mi sembra di aver letto, è stato definito in un’intervista il più grande venture capitalist italiano, in che modo l’innovazione e il suo lavoro possono andare nella direzione della cura, non più quindi una finanza sfrenata che perde di vista le persone, ma che le rimette al centro.
R. Nicola Redi: In realtà quella a cui stavi facendo riferimento era una battuta all’interno dell’intervista. Ad ogni modo, dal punto di vista di noi investitori si tratta di un tema fondamentale che sintetizzerei con la definizione di “cura dell’impresa”. Spesso abbiamo confuso gli strumenti con il senso delle cose, o meglio con il purpose. Anzitutto non voglio parlare della cura intesa come cura del fisico, ma vorrei parlare del prendersi cura, occuparsi di e, per quello che riguarda l’uomo, della sua cura a 360° nei termini di quel nuovo Umanesimo a cui si riferiva il professor Zamagni.
Grazie agli strumenti digitali abbiamo avuto la possibilità di organizzare questo incontro, allo stesso tempo questi strumenti ci stanno permettendo di lavorare durante la crisi, ma non dobbiamo dimenticarci che buona parte degli strumenti informatici che stiamo usando hanno trasformato la nostra vita in prodotto perché abbiamo confuso ancora una volta il senso delle cose con uno strumento, che invece dovrebbe essere utilizzato come tale.
Quando si parla del prendersi cura mi viene da pensare al lavoro come relazione e questo mi porta al concetto di economia della conoscenza, ovvero della cura della conoscenza, come strumento per una nuova società basata sul lavoro come relazione. L’impresa deve essere considerata come un’attività economica e non come un’attività finanziaria; ancora una volta c’è stato un fraintendimento fra lo strumento e l’obiettivo. Per attività economica s’intende il prendersi cura della casa, della gestione quotidiana, mentre la finanza di per sé nasce etimologicamente come strumento di realizzazione, e quindi di pagamento. Abbiamo confuso il momento del pagamento, dunque la transazione finanziaria, con l’obiettivo, mentre invece quello che dobbiamo recuperare è l’idea di una finanza a disposizione della cura, cioè quella dell’impresa come attività economica.
All’interno di questa prospettiva sottoscrivo pienamente quanto detto da Marco Bentivogli: ci portiamo dietro un modello fordista di impresa. L’automazione è qualcosa che toglie posti di lavoro, ma permette un impiego più dignitoso, permettendo all’uomo di effettuare funzioni a maggior valore aggiunto, che richiedono l’utilizzo delle proprie conoscenze.
Allora è straordinario pensare che il nostro Paese stia lasciando per strada buona parte delle proprie risorse intellettuali, tutta quella parte di giovani laureati che secondo dati Eurostat nel 2016 sono più che raddoppiate rispetto alle risorse di altri Paesi. In questa situazione bisogna parlare di disoccupazione femminile, perché statisticamente il 33% delle ragazze è laureato rispetto al 21% dei ragazzi e ciò vuol dire che non riusciamo a impiegare le persone più qualificate all’interno di un economia che dovrebbe essere, invece, un’economia della conoscenza. Peggio ancora, il 30% dei giovani italiani non è né in cerca di occupazione né in formazione, rispetto a una media europea del 16%. Quindi ci troviamo di fronte a un’occasione che potrà veramente permettere di cambiare radicalmente il nostro Paese, ritornando a investire nella conoscenza e in un’economia della conoscenza.
La finanza è uno degli strumenti a disposizione per questa economia che si basa su un lavoro non più inteso come strumento ma come opportunità di relazione.
D. Riguardo al lavoro ci sarebbero moltissime cose da dire, perché è probabilmente uno degli ambiti che cambierà di più nel prossimo futuro.
Chiederei, infine, a Massimo Temporelli, di sottolineare quale sia l’importanza di mettere insieme e far dialogare, senza più separarle, le discipline scientifiche e quelle umanistiche.
R. Massimo Temporelli: Porto avanti questa battaglia da sempre. Mi piacerebbe pensare a degli imprenditori e a dei manager che sappiano gestire sia la parte numerica e quantitativa del mondo del reale sia quella parte immaginifica, quella di Calvino di Dante o di Shakespeare, perché alla fine le innovazioni, il lavoro e tutto il mondo che disegniamo sono fatti da questi due aspetti, dalla capacità di buttare il cuore oltre gli ostacoli, di immaginare qualcosa che ancora non c’è e dalla competenza che sa utilizzare gli strumenti tecnici per realizzare questo qualcosa ancora ignoto. Credo che sia un’operazione che potremmo chiamare post-disciplinare. A partire da Galileo abbiamo cercato di affettare il mondo in tante porzioni – l’abbiamo fatto per il suo bene, sia ben chiaro –, mentre adesso, nel XXI secolo, siamo tornati finalmente a parlare di ecosistemi e di sistemi complessi. Per gestire questa complessità, però, serve un sapere non più diviso in categorie e in facoltà, ma un sapere universale. Naturalmente ogni sapere deve avere un suo specialista, ma dentro le aziende c’è un terribile bisogno anche di quelli che Von Bertalanffy chiamava “generalisti”, coloro che sono in grado di scendere abbastanza in profondità per capire la terminologia, i lemmi e le prassi di una disciplina, ma poi sanno tornare a galla e connetterli con altro. Se riusciremo in futuro a produrre nelle università e nelle aziende queste figure io credo che l’Italia, così come l’Europa che è un’area geografica molto colta, possa vincere, avendo naturalmente il fine di trasformare le aziende, di farle lavorare meglio, di far lavorare meglio i dipendenti e di far guadagnare di più il territorio.
È una sfida interessante quella del XXI secolo e questa crisi dovuta al Covid-19 non farà altro che accelerare quello che era già in atto. In Europa le aziende si stanno trasformando, ma c’è sempre stato un peso, un’inerzia a farle rallentare. Se accelerassimo in questa direzione, verso cioè una trasformazione tecnologica colta, allora saremmo veramente un posto bello in cui vivere, un Paese e un continente in cui potremmo tornare a produrre ricchezza per gli imprenditori, per le aziende ma soprattutto per i cittadini.
D. Vi ringrazio moltissimo, perché credo che in questa tavola rotonda in realtà si è costruita un’outline per una vera agenda di lavoro futuro e mi sembra che prendendo spunto dai vostri preziosi interventi ci siano le premesse per introdurre un altro aspetto che sta molto a cuore a Venture Thinking, cioè il tema della solidarietà e di come creare delle dinamiche di solidarietà. Marco Bentivogli diceva di non disgiungere ciò che originariamente è sempre stato unito, il tema del lavoro e della salute. Si parlava poi del lavoro come opportunità di relazione, un argomento a me molto caro, rispetto poi alla necessità di andare verso un sapere universale, anche con quell’idea di Umanesimo a cui si rifaceva Stefano Zamagni.
Ancora un giro di tavola. Quello che credo vi accomuni sono le dinamiche di trasferimento di informazione, di conoscenza e di tecnologia. Vi chiederei allora un aggettivo da abbinare al trasferimento, pensando al lavoro, alla salute e all’apprendimento.
R. Marco Bentivogli: Realizzativo. La tecnologia viene utilizzata per trasferire alcune funzioni ad algoritmi che possono farle in maniera più efficiente e così aumenta l’ingaggio cognitivo. Il Papa dice che nel lavoro degno le persone possono fiorire. Un’azienda in cui ogni mattina il cuore e il cervello rimangono fuori dai cancelli non è produttiva, ma è un’azienda che spreca costantemente. Perciò bisogna avere una dimensione realizzativa del lavoro molto forte e il lavoro deve tornare veramente a garantire mobilità sociale.
R. Nicola Redi: Originariamente stavo pensando a “umano”, poi ho preferito chiudere su “estetico”, perché come diceva Dostoevskij la bellezza salverà il mondo, e di questo abbiamo bisogno.
R. Massimo Temporelli: Anch’io ho una girandola di aggettivi, ma credo che “audace” sia la parola di questi giorni. Bisogna collegare e trasferire, e bisogna farlo in modo audace. È necessario esagerare ora perché questo è il tempo delle ampie progettualità. Se non ce lo permettiamo adesso, non ce lo permetteremo mai più.
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