PENSIERO CREATIVO INNOVATIVO

PENSIERO CREATIVO INNOVATIVO

Di Eugenio Guglielmelli, Prorettore alla Ricerca, Università Campus Bio-Medico di Roma

Il nostro valore, come Università Campus Bio-Medico, come comunità dei docenti e ricercatori, come rete di partner, è in particolare quello di poter dare riferimenti nell’ambito delle scienze e tecnologie biomediche, le quali, come penso si sia percepito molto bene in questo periodo, possono fornire un contributo allo sviluppo socio-economico in senso ampio.

Parto da una citazione dalla quale non posso esimermi, perché proprio il 23 gennaio di quest’anno è mancato il professor Clayton Christensen, teorico della disruptive innovation, l’innovazione radicale. Questo tipo di innovazione costituirà quanto mai ora, correlata ai nuovi scenari e ai nuovi rischi, un’opportunità per cambiare modello di business, immaginare nuovi prodotti, nuovi beni e nuovi servizi.

«If a company is not failing in its new product attempts, it isn’t doing things right. The lack of failure is a sign of conservative, safe, and eventually, suicidal behaviour.»

Se una società, diceva Christensen, non si rende sensibile nel capire come cambiare, anche radicalmente, i propri prodotti e modelli di business, significa che è troppo conservativa, troppo sicura del proprio modello e che quindi ha un comportamento suicida.

Christensen era molto concentrato anche sul tema della sanità e della salute, gli scenari che descriveva erano quelli di una medicina in evoluzione. Circa una decina di anni fa, in un libro del 2009 (The Innovator’s Prescription. A Disruptive Solution for Health Care), parlava di una medicina in evoluzione, a partire da un approccio molto intuitivo e sempre più empirico, basato sull’evidenza, verso una medicina di precisione, grazie alle tecnologie abilitanti, in particolare all’analisi dei dati, alla diagnostica molecolare e all’imaging. La precisione intesa è rivolta sia al paziente che a un insieme di regole, le quali possono essere la base per l’erogazione di servizi sanitari non più solo negli ospedali, dove le specializzazioni e le tecnologie più avanzate sono disponibili, ma anche in strutture sempre più decentralizzate, cosa che può cambiare radicalmente i modelli di business in questo settore.

Dalle ricerche più recenti sulle principali aziende innovative, le 700 che investono più in tecnologie per la trasformazione, si vede come l’Internet of Things, ma anche i soft bots, la cosiddetta Robotic Process Automation, l’intelligenza artificiale e la robotica fisica stiano avendo una crescita notevolissima. Questi investimenti sempre più importanti inseguono la sfida di valorizzare il ruolo della persona. Infatti il fine per cui prendere questa tecnologia a bordo non è solo quello di ridurre i costi, ma di comprendere sempre meglio i bisogni e le esigenze degli utenti, migliorare non solo la produttività, ma anche la qualità e la soddisfazione, creando per tutti, anche per le aziende e per la loro sostenibilità, una migliore esperienza.

Questa sfida era già in corso, ma ora sta vivendo un’accelerazione importante. Nel nostro ospedale medici, anestesiologi, radiologi, bioingegneri robotici e informatici hanno lavorato per applicare nella diagnosi tecnologie che si pensava richiedessero ancora più tempo, come, ad esempio, sulle tac, sulle radiologie oppure per migliorare la sicurezza in un centro Covid della zona rossa, riducendo la presenza di operatori sanitari attraverso l’utilizzo di sistemi robotici per trasportare campioni biologici e così via. Queste situazioni, che hanno aperto scenari ancora inesplorati, in due mesi sono diventate realtà operativa nelle nostre strutture sanitarie. Hanno stimolato un tipo di innovazione molto più radicale di quanto si potesse immaginare, considerando i tempi in cui di solito avviene. La ricerca, in realtà, era già nella nostra università a disposizione del settore sanitario, ma ora si è capito che poteva essere applicata ancora più rapidamente.

La cosiddetta “valle della morte” è un tema strutturale, non solo in campo biologico, il problema cioè di far arrivare i risultati della conoscenza e della ricerca all’applicazione, dalla comprensione del Coronavirus, dal punto di vista della diffusione e del contagio, fino alla realizzazione del primo vaccino e dei primi farmaci. Attraversare la valle della morte significa cercare di superare le difficoltà nel collegare la ricerca, anche quella orientata verso problemi concreti come quello del Coronavirus, alla sua applicazione; in campo medico questa è la funzione della ricerca traslazionale. Spesso ad avere tale approccio sono proprio gli innovatori, i mediatori sulle tecnologie, i risolutori di problemi con una competenza di base di tipo ingegneristico, spesso bio-ingegneristico nel nostro settore, e non solo. Hanno una comprensione del fattore umano che possono utilizzare per valorizzare la traslazionalità della conoscenza verso soluzioni innovative con un reale valore di mercato.

Questa è la sfida. Nella medicina le tecnologie hanno avuto una storia relativamente recente: solo all’inizio del XIX secolo lo stetoscopio ha cominciato a rendere popolare un tipo di interazione diretta e fisica col paziente, utile per raccogliere dati empirici, e ancora oggi è tra le tecnologie più diffuse. Il concetto di interazione è molto generale. Negli Stati Uniti, al MIT, il gruppo del professore Hugh Herr ha lavorato nel contesto della cosiddetta “bionica estrema”, cioè l’ingegnerizzazione delle funzioni e della struttura del corpo umano in modo tale da rendere possibile l’interazione con la tecnologia. Il paziente era caduto da una parete rocciosa, ma è riuscito di nuovo a scalarla con la sua protesi. Si era reso disponibile all’amputazione del piede evitando, come avviene spesso nei pronto soccorso, che queste operazioni rendano inutilizzabili i muscoli residui e tutti i sensori della gamba, per riuscire a interfacciarsi in modo ottimale con la protesi.

Tutto ciò sottolinea quanto sia importante che team multidisciplinari coinvolgano attivamente fin dalla concezione di un’idea, anche radicalmente innovativa, gli utenti finali, coloro che dovranno erogare i servizi associati a un certo bene o a un qualunque tipo di innovazione e di business, e siano anche in grado di concepire modifiche radicali utilizzando tutte le tecnologie disponibili, dalla data science fino alle tecnologie fisiche e robotiche, e ottimizzando l’interazione fisica e funzionale con tali tecnologie al fine di ottenere quello che è il miglior compromesso tra produttività, qualità, accettabilità, sicurezza e resilienza della soluzione.

Questi spunti ci aiutano a comprendere anche che le tecnologie e le soluzioni che troviamo devono andare verso una valutazione basata sull’impatto reale, quindi verso un’innovazione value-based, che non guarda solo al costo del prodotto in quanto tale, ma a quanto questo possa migliorare la qualità della vita della società, al contributo che le aziende possono dare nell’apportare nuove forme di benessere lavorativo e sociale.

Chiudo con alcuni messaggi sostanziali. Una delle sfide più importanti è prevedere le innovazioni. Per il 2020 Blade Runner immaginava che tutte le macchine volassero, ma che ancora si telefonasse dalle cabine telefoniche, mentre le tecnologie dei cellulari erano già disponibili e abbastanza mature quando il film fu girato. Anche la fantascienza, quindi, ha problemi a predire l’innovazione, perché è sempre difficile possedere gli scenari. È anche importante governare le tecnologie. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ci informa che governiamo male quelle delle automobili. Sono, infatti, la prima causa di morte al mondo per i cittadini tra i 15 e i 29 anni e il 3% del pil è speso per questo. Nell’ultimo Forum sulla Scienza e la Tecnologia per la Società (STS forum 2018), a cui hanno partecipato oltre 20 premi Nobel, molti rappresentanti di aziende, top manager, imprese di rilievo e università, è stato trasmesso proprio questo messaggio: le tecnologie vanno governate verso una società che migliora il benessere lavorativo.

Chiudo con un ultimo messaggio legato a Venture Thinking. La situazione in cui ci troviamo è quella delineata da un altro pioniere dell’innovazione, dell’open innovation, Henry William Chesbrough, dove la necessità imperativa di creare tecnologie e valorizzarle per il benessere delle aziende aveva cambiato gli scenari, ampliando l’accesso a una proprietà intellettuale sempre più distribuita, aumentando il ruolo del venture capital e superando le sindrome da Not invented here. Venture Thinking vuole essere un bacino di idee per la disruptive innovation, vuole dare sempre maggiore valore all’open innovation rendendola ancora più aperta e inclusiva, tanto quanto lo è l’iniziativa verso aziende e portatori di competenze.

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