Chi salverà il mondo?

Chi salverà il mondo?

Lo scenario economico a cui stiamo andando incontro inizia ad essere abbastanza chiaro. Sono pochissime le aziende longeve che continuano a prosperare in questa fase di profonda trasformazione. Si è radicato, nel mondo delle imprese, il termine “digital trasformation” per far comprendere la necessità impellente del cambiamento. Detto in altri termini più pragmatici, ormai tutti sono consapevoli che gli attuali business model, non solo affronteranno contrazioni dei ricavi e dei margini, ma saranno sostituiti da modelli nuovi che crescono in maniera esponenziale e non lineare. Una consapevolezza che deve portare necessariamente ad una risposta. Prepariamoci a giocare una nuova partita e cerchiamo di rendere il business più sostenibile e longevo.
Questo è il pensiero diffuso fra il top management. Facile a dirsi; un po’ meno a farsi.

Due le ragioni principali.

PENSIERI LUNGHI, RISULTATI BREVI. Il crollo del business tradizionale non è così vicino. I segnali anzi, per alcuni mercati, segnano ancora delle previsioni a rialzo. Perché allora lasciarsi distrarre dal nuovo e non rispettare invece tutti i meccanismi che premiano ancora i risultati ottenibili nel breve periodo? Nell’ultimo lustro la durata media un Ceo è scesa da 5 a 2,7 anni. Va da sé che senza risultati a breve termine, la strada per l’ulteriore riduzione dell’incarico può essere ancora più breve.

AGITLITA’. L’avvio del nuovo è pieno di rischi e incertezze. La periodo necessario ad uscire dalla fase di start-up è lungo, è dispendioso e pieno di insidie. A prescindere dalla capacità di individuare la strada giusta (o le strade giuste), spesso non si è pronti – in termini di capacità e competenze – a percorrere il percorso. E se si è pronti, in qualche misura, si è meno agili rispetto a realtà nuove dotate di risorse più fresche ed una cultura aziendale nata nell’innovazione e nel cambiamento.

Insomma, si è in una fase che potremmo definire ibrida. Il vecchio ed il nuovo devono imparare a convivere in un equilibrio non facile da mantenere e da far evolvere. Quello che è certo è che, come nella società civile, che gli schemi di management, le dottrine scientifiche, i riferimenti culturali degli ultimi cento anni non tengono più. Non possono essere il collante di questa fase di trasformazione. Lo diciamo chiaramente e subito: non siamo qui con l’ambizione di creare nuovi framework metodologici. Ci hanno già pensato prestigiose società di consulenza e di ricerca.

A noi interessano di più le azioni che gli schemi di gioco. A noi interessa esplorare, in questa fase delicata di passaggio, l’impatto che può avere una nuova impresa filosofica, capace cioè di declinare orizzonti di senso


Nella nostra cultura la parola filosofia non riporta immediatamente all’idea di azione, anzi. Cosi come sappiamo che la parola impresa rimanda subito ai conti, ai numeri, all’aspetto materiale. Sentiamo necessario superare questa divisione, interpretare questa polarità.

 
Abbiamo bisogno, oggi come non mai, di recuperare e trasformare il senso dell’impresa, e ibridare con questo senso anche gli altri campi che hanno bisogno di grandi slanci creativi e progettuali.

Il nostro tempo ha bisogno di ritrovare il significato dell’esplorazione, della creazione e dell’innovazione. Ed abbiamo bisogno anche di senso, di sicurezza, di ripetizione, di sostenibilità. Abbiamo bisogno di conciliare breve termine con lungo termine. Abbiamo bisogno di risposte nuove a nuove domande. Abbiamo bisogno di riagganciare il corpo allo spirito.


Nonostante ci siano state buone ragioni di efficienza per tenerle separate, è arrivato il momento di ricucire due tele separate, impresa e filosofia.
Non proponiamo di creare un circolo esclusivo per top manager e neanche un’enclave di intellettuali. Piuttosto, proponiamo un viaggio aperto a tutti coloro che sentono l’urgenza di intraprendere un’impresa filosofica nel mare scuro, profondo e affascinante del nostro tempo.

Daniele Di Fausto

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